Il complesso della Cavallerizza: un itinerario tra storia e progetti
Quando ci si confronta con il tema della Cavallerizza nel sistema dei Musei Reali occorre tener sempre presente che si tratta di un itinerario complesso tra edifici progettati e mai realizzati, costruzioni edificate poi abbattute, architetture esistenti ma in costante trasformazione.
La Battaglia di San Quintino
Tra il 1582 e il 1585 Palma il Giovane realizzò la grande tela della Battaglia di San Quintino, attualmente collocata nel Salone degli Svizzeri di Palazzo Reale. L’artista raffigurò gli ultimi momenti della battaglia combattuta in Piccardia il 10 agosto 1557 quando il duca di Savoia Emanuele Filiberto, allora luogotenente generale e comandante supremo dell’esercito spagnolo nelle Fiandre (1553) e governatore dei Paesi Bassi (1556), riuscì a sconfiggere i francesi ottenendo da una parte la restituzione dei territori italiani di famiglia e dall’altra innescando quel processo che porterà allo spostamento della capitale del ducato da Chambéry a Torino. Carlo Emanuele I (fig.1), figlio di Emanuele Filiberto, commissionò la tela per celebrare la vittoria con la consapevolezza di quanto questa rappresentasse un momento cruciale svolta per la dinastia sabauda.
1. Giovanna Garzoni, Ritratto di Carlo Emanuele I di Savoia, 1632.
Torino, Musei Reali
La Grande Galleria di Carlo Emanuele I
Nel 1605 Carlo Emanuele I delineò il progetto per la Grande Galleria: come un cannocchiale, l’ambiente proseguiva lo spazio che oggi costituisce la Galleria del Beaumont per raccogliere le collezioni di sculture antiche, rarità, libri e tutti quegli oggetti che, nella visione del duca, rappresentavano il mondo nella sua infinita complessità (fig. 2). L’aspirazione globale del collezionismo di Carlo Emanuele I è ben esemplificata in un disegno di Girolamo Righettino, risalente al 1583 e oggi conservato all’Archivio di Stato di Torino (fig. 3): al centro del foglio si osserva la pianta della città incastonata in quattro anelli concentrici che rappresentano i quattro elementi, mentre sulla cornice si posizionano le arti del governo, della pace, e della guerra. A completare la raffigurazione interviene un cartiglio su cui si legge un verso tratto da Il trionfo dell’Eternità (1351-1374) (fig. 6) di Francesco Petrarca: «che conturba et acquieta gli elementi». L’ambizione che traspare dall’opera di Righettino è confermata dal trattato dello scrittore Gasparo Murtola, Della creatione del mondo (1608) (fig. 4), dove, come in una sorta di trasposizione letteraria della Grande Galleria, vengono descritte tutte le manifestazioni della vita sulla terra. Per la decorazione della sua galleria, il duca aveva chiamato a corte il pittore Federico Zuccari (fig. 8), i cui disegni progettuali, mai realizzati, riproducono alle pareti i ritratti equestri degli antenati sabaudi, sul pavimento le acque e sul soffitto le costellazioni, concependo così non solo un luogo dove racchiudere il sapere ed esporre le “meraviglie del mondo”, ma anche un ambiente per la celebrazione della dinastia dei Savoia (fig. 5). Nonostante non sia semplice classificare la Grande Galleria nelle categorie museologiche, esistono tuttavia alcuni modelli da cui si è tratta ispirazione, come ad esempio la Sala dei Mappamondi del Palazzo Farnese a Caprarola, in cui gli affreschi sul soffitto raffigurano i segni zodiacali, mentre sulle pareti sono presenti enormi planisferi; oppure, nel riferimento al cannocchiale prospettico in cui si mescolano i saperi, ricorda i tre corridoi della Galleria degli Uffizi (fig. 6) e la Galleria della Mostra del Palazzo Ducale di Mantova (fig. 7). Già danneggiata in un incendio nel 1659 e poi abbattuta dai francesi nel 1801, la Grande Galleria di Carlo Emanuele I a Torino è comunque diventata storicamente un luogo emblematico e simbolico per raccontare la nascita e lo sviluppo del collezionismo sabaudo.
Il Regio Parco
Il pittore Federico Zuccari era solito recarsi al Bastion Verde dei Giardini Reali, un piccolo padiglione dotato di loggia a colonnine dal quale poteva ammirare il Regio Parco che così descrisse ne Il passaggio per Italia (1608): una vista «non so se altra più bella, più larga e longa e varia trovare si possa; né altro che un golfo di mare gli manca […] la campagna aperta a sinistra, et a destra il piano e le colline delitiose già dette, con un gran giro di detta Dora davanti». Si trattava di 230 ettari di boschi e passeggiate di cui, oggi, si conservano i cinque ettari degli attuali Giardini Reali e il Parco della Colletta. Sempre all’interno dei confini del Regio Parco è andato perduto il Castello del Viboccone, «un alto edificio, fortificato con torri, il rifugio più adatto dopo la caccia», come illustra una tavola del Theatrum Sabaudiae (1682). Al complesso architettonico si univa «un immenso vivaio per animali selvatici, circondato su tutti i lati da un muro», e una distesa di boschi dove la fauna poteva vivere liberamente. Inoltre, questo casino di caccia ospitava parte delle antichità appartenenti ai Savoia e, in seguito, fu demolito per costruire la Manifattura Tabacchi.
La Rotonda dell’Armeria Reale
Concepita come un torrione di snodo tra la manica dell’attuale Armeria Reale e l’odierna Prefettura, la Rotonda fu destinata, per un breve periodo, a piccolo teatro di corte, come testimoniato dall’incisione di un disegno risalente al 1722 (fig. 8) dell’architetto Filippo Juvarra. L’ambiente si può meglio osservare in un’articolata planimetria riguardante le Segreterie, gli Archivi, il Teatro e l’Accademia, progettata dallo stesso architetto nel 1733 e conservata nell’Archivio di Stato di Torino (fig. 9). La Rotonda si configurava come una specie di panoptikon che permetteva di abbracciare con lo sguardo molti dei numerosi edifici che costituiscono la zona di comando. Attualmente ospita non solo le collezioni dell’Armeria Reale ma anche Favorito, cavallo prediletto di re Carlo Alberto, suo destriero nelle battaglie risorgimentali e anche durante l’esilio a Porto. In realtà non si tratta di un esemplare imbalsamato, ma di una scultura di legno – realizzata nel 1869 dallo scultore Giovanni Tamone – poi rivestita dalla pelle dell’animale.
La cortina muraria dei Giardini Reali
A partire dal 2017, i Musei Reali hanno concentrato la loro attività anche sulla cortina muraria che cinge gli attuali Giardini Reali, con l’obiettivo di rendere quest’area verde un luogo di collegamento e non di separazione con il resto della città al di là delle mura. Il progetto dovrebbe prevedere anche un intervento relativo ai due bastioni: se, per quanto concerne il Bastion Verde – raffigurato sulla sinistra in nella veduta torinese di Bernardo Bellotto (1745) – si è pensato a un’azione di restauro e riuso, per quello di San Maurizio non si è ancora giunti a una soluzione. Inoltre, in tale contesto il museo ha cercato di restituire ai giardini l’apparato decorativo originale, caratterizzato da vasi in bronzo del XVI secolo che, già nell’Ottocento, risultano sostituiti da esemplari in ghisa della Ditta Giovanni Colla. Poiché nel lungo periodo di chiusura dei Giardini Reali i vasi sono stati dispersi tra il Castello d’Agliè e la Reggia di Venaria, si è preferito, al momento della riapertura, non ritirarli ma commissionarne la riproduzione alla Fonderia pinerolese di Frossasco e riposizionarli su tozzetti ottagonali di pietra, esattamente come indicato nei documenti storici.
Le serre dei Giardini Reali
Poste al di sotto del perimetro murario del Giardino Ducale, le serre dei Giardini Reali costituivano un elemento di particolare interesse per i Savoia, dediti al collezionismo botanico, anche inteso come forma di appropriazione di frammenti di mondi e culture lontani. In Il giardino del Palazzo Reale di Torino 1563-1915 – curato da Paolo Cornaglia e pubblicato nel 2019 – vi sono i testimoniali del 1875 e del 1876 che restituiscono lo stato delle collezioni botaniche sabaude: si tratta di 9000 specie, tra cui si annoverano piante curiose come la Gloxinia maculata e la Rosa Comte Bobrinsky. Tuttavia, nel 1914 Casa Reale decise di cedere la parte dei giardini bassi alla città di Torino che per costruire la strada di collegamento tra l’attuale corso San Maurizio e piazza Castello, optò per l’abbattimento delle vecchie serre reali e per il successivo rifacimento ad opera dell’ingegnere comunale Aurelio Mastrogiacomo (1920). Attualmente, se dall’esterno l’edificio si presenta racchiuso entro un muro perimetrale, e dunque separato dal resto della città, visto dall’interno dei giardini appare come un corpo di fabbrica centrale con due ali laterali – il padiglione di ponente e quello di levante –, a cui si aggiunge una struttura aggettante in vetro di costruzione più recente.
Il Museo di Antichità e la futura destinazione delle serre
Nel 1724 Vittorio Amedeo II decise di donare le sue raccolte d’antichità all’Università di Torino, che le sistemò nel cortile del Rettorato (fig. 10) e inaugurò così il primo museo pubblico d’Europa, il Museo di Antichità. Con l’acquisto delle raccolte egizie e il conseguente ampliamento delle collezioni d’antichità, dal 1832 si stabilì di spostare il museo negli spazi dell’Accademia delle Scienze sino a quando, nel 1940, si scelse di mantenere nella sede solo i reperti egizi, trasferendo tutto il resto nelle serre dei Giardini Reali. Su indicazione della Soprintendenza, nel 1974 l’architetto Caterina Fiorio progettò in questi locali il nuovo Museo di Antichità, con annessi uffici, depositi e laboratori di restauro. Nel 2017 gli ambienti sono stati svuotati e le relative opere d’arte confluite al pianterreno della Galleria Sabauda, secondo il progetto che mira a una reinterpretazione e una rifunzionalizzazione delle serre. L’obiettivo dei Musei Reali a medio-lungo termine è quello di offrire un nuovo percorso di accesso che, dall’area su corso Regina Margherita, permetta di risalire al Giardino Ducale mediante una rampa elicoidale, fino ad arrivare in Piazzetta Reale. In linea con la riqualificazione della cortina muraria, la nuova fisionomia di questa zona mira ad abbattere le barriere architettoniche tra i Musei Reali e la parte settentrionale della città, istituendo così un ponte di connessione tra due realtà che, diversamente, rimarrebbero distinte. (fig. 11)